dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto.
L’eroe Pallante era caduto. Offerse
l’àlbatro il bianco de’ suoi fiori, il rosso
delle sue bacche e le immortali frondi.
Gli fu tessuto il letto di quei rami
de’ tre colori, e furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato.
Oh! ma che pianto fu così tornando
al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
povero re, dalla silvestra reggia.
Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi
del Palatino, tra le antiche selve
misterïose. E tu non eri, o Roma.
Anzi per il rupestre Campidoglio
eran macerie già muscose, e bianchi
ruderi sparsi si vedean tra i folti
cespugli del Gianicolo: rovine
di due città vinte dal tempo; ed ora
quelle rovine trite e sonnolente
empiva a volte del suo rauco augurio
lo stuol de’ corvi. E Fauno avea per reggia
una capanna piccola, coperta
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
avea due cani, che correndo innanzi
bandìan, lieti abbaiando, il suo ritorno.
Al re non tromba dividea la notte
buia in vigilie: gli diceva - È l’alba -
di sul colmigno il passero, e la rondine,
anche più presso, gliel garrìa dal trave.
E quindi il tempo portò via quel Fauno
e il suo dolore, e la caduca reggia;
e sul Palazio ignare le giovenche
pascevano, e la valle posta al piede
si mescolava d’un belar d’agnelli.
E se il pastore aveva udito un qualche
urlo di lupi, egli racchiuso il gregge
in uno speco, s’addormìa tranquillo.
Veniva allora, per le tenebre, una
lupa, e fiutava il chiuso lupercale.
E Fauno, il buono, nelle selve ombrose
cantava il canto delle foglie ai venti,
invisibile. E sulle antiche quercie
picchierellando senza fine il picchio
sacro contava gli anni tanti, gli anni
tardi a venire.