sabato 27 gennaio 2024

Abbiamo lasciato il campo cantando

Esther Hillesum detta Etty nasce un giovedì del 15 gennaio 1914 a Middelburg in Olanda, la sua famiglia è formata dal padre Levie detto Louis, nato ad Amsterdam nel 1880, professore di lingue classiche; dalla madre Rebecca Bernstein detta Riva nata a Potcheb in Russia che nel 1881, per sfuggire a un pogrom, travestita da soldato, arriva ad Amsterdam l'8 febbraio del 1907; dal fratello Jacob detto Jaap, nato a Hilversum il 27 gennaio 1916, medico dell''ospedale israelitico di Amsterdam, e dall'altro fratello Michael detto Mischa, nato a Winschoten il 22 settembre 1920, pianista di grande talento.
Nel 1926 Etty si iscrive al liceo classico di Deventer e nel 1937 alla facoltà di legge di Amsterdam dove alloggia in via Gabriël Metsu 6, nella casa di Hendrik Wegerif detto Han con cui instaura una relazione sentimentale nonostante i 21anni di differenza. Nel 1939 si laurea e si iscrive alla facoltà di lingue slave, ma a causa della guerra deve interrompere il suo percorso di studio.
Il 3 febbraio 1941 Bernard Meylink, studente che vive nella casa di Han, gli presenta Julius Spier psicologo e psicoterapeuta, allievo di Carl Gustav Jung, a cui si deve l'invenzione della psicochirologia che studia il carattere e la personalità delle persone attraverso l'analisi delle mani. Etty diventa inizialmente una paziente di Spier e l'otto marzo del 1941 su suo suggerimento inizia a scrivere un diario, Etty in seguito diviene segretaria dello psicologo e infine l'allieva, l'attrazione tra i due è reciproca nonostante lui abbia il doppio della sua età e nonostante entrambi siano impegnati in una relazione.
Nel 1942 tra maggio e giugno in Olanda vengono emanate le leggi di Norimberga che vietano agli ebrei l'uso dei telefoni, dei trasporti pubblici e la possibilità di contrarre matrimonio con chi ebreo non è.
Il 1 luglio 1942 il campo di Westerbork, creato nel 1939 dal governo olandese con la comunità ebraica per accogliere gli apolidi e i rifugiati ebrei, sotto il comando delle SS., diviene Campo di transito di pubblica sicurezza, dove si selezionano i prigionieri ebrei da mandare ad Auschwitz.
Il 16 luglio, grazie al fratello Jaap e a un membro del Consiglio Ebraico di Amsterdam, Etty viene assunta nel campo di Westerbork come dattilografa nella sezione assistenza alle partenze, ciò le concede una certa libertà che le permette di essere ricoverata presso l'ospedale israelitico a causa di un calcolo biliare, di passare del tempo ad Amsterdam con Julius Spier che muore il 15 settembre 1942 a causa di un tumore al polmone e di partecipare al suo funerale.
Nel giugno 1943 i genitori di Etty e il fratello Mischa vengono internati a Westerbork e il 5 giugno, dopo aver lasciato a Maria Tuinzing gli 11 quaderni del suo diario per consegnarli allo scrittore Klaas Smelik che si sarebbe impegnato a farli pubblicare a fine guerra se lei non fosse sopravvissuta, a Westerbork vi ritorna spontaneamente anche Etty che per seguire il suo destino rifiuta il sostegno degli amici che vogliono nasconderla.
Dal luglio 1943 nessuno può più uscire dal campo di Westerbork e nell'autunno dello stesso anno due lettere di Etty vengono portate fuori clandestinamente e sono pubblicate ad Amsterdam, la prima è datata dicembre 1942 e la seconda 24 agosto 1943.
Il 7 settembre 1943 la famiglia Hillesum, tranne Jaap, sale su un treno diretto ad Auschwitz, Etty riesce a gettare una cartolina dal convoglio che viene ritrovata da dei contadini lungo la linea ferroviaria, la spediscono all'amica a cui è indirizzata e su vi sono scritte le sue ultime parole: « Abbiamo lasciato il campo cantando ».
Tre giorni dopo Levie e Riva muoiono gasati appena arrivati ad Auschwitz, Etty muore il 30 novembre 1943 e suo fratello Mischa il 31 marzo 1944. Jaap deportato a Bergen Belsen nel febbraio 1944, muore il 27 gennaio 1945, dopo la liberazione dell'Armata Russa, sul treno che lo sta portando in salvo.

Etty Hillesum - 1939

Etty Hillesum - 1939

Gli undici quaderni del diario di Etty vengono pubblicati solo nel 1981 dall'editore Gaarlandt ed ecco cosa scrive Etty il 3 luglio del 1942 nel nono e decimo quaderno:

Quaderno 9

3 luglio 1942, venerdì sera, le otto e mezzo. Sono sempre seduta alla medesima scrivania, ma a questo punto dovrei tirare una riga e proseguire su un tono diverso. Dobbiamo trovare posto per una nuova certezza: vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere. Oggi, per la prima volta, sono stata presa da un gran scoraggiamento, mi toccherà fare i conti anche con questo, d'ora in poi. E se dobbiamo andare all'inferno, che sia con la maggior grazia possibile! Però, non avevo mai voluto parlarne in modo così esplicito: perché questo stato d'animo, proprio ora? Perché ho una vescica al piede a forza di camminare per la città così calda - perché tanti hanno i piedi distrutti da quando gli è stato proibito di prendere il tram? Per il pallido visetto di Renate che deve andare a scuola a piedi con le sue gambette corte, un'ora all'andata e un'ora al ritorno, nel caldo? Perché Liesl fa la coda e non riesce, ugualmente, a procurarsi le verdure? Per tante e tante ragioni, piccole in sé, ma tutte parti della gran campagna che è in atto per sterminarci. E tutto il resto appare semplicemente grottesco e inconcepibile, per ora - ad esempio il fatto che S. non possa più visitare questa casa, col suo pianoforte e coi suoi libri; o che io non possa più andare a casa di Tide, ecc.
Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos'è in gioco per noi ebrei. Una sicurezza non sarà corrosa o indebolita dall'altra. Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato, anche se non ho quasi più il coraggio di dirlo quando mi trovo in compagnia. La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio - così, per me stessa, senza riuscire ancora a spiegarlo agli altri. Mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo per poterlo fare, e se questo non mi sarà concesso, bene, allora qualcun altro lo farà al posto mio, continuerà la mia vita dov'essa è rimasta interrotta. Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all'ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica. Non è anche questa un'azione per i posteri? L'amico ebreo di Bernard mi aveva fatto chiedere dopo le ultime ordinanze: se non trovavo ancora che dovessero essere ammazzati tutti e preferibilmente tagliati a pezzetti, uno per uno.


Quaderno 10

3 luglio 1942. È vero, ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l'inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli. Uno scenario, una rappresentazione mutevole delle circostanze esteriori. Ma abbiamo tutto in noi stessi e queste circostanze non possono essere mai così determinanti, perché
esisteranno sempre delle circostanze - buone e cattive - che dovranno essere accettate, il che non impedisce poi che uno si dedichi a migliorare quelle cattive. Però si deve sapere per quali motivi si lotta, e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo. Una volta mi sentivo in dovere di concepire molti pensieri geniali al giorno, ora mi sento non di rado come una terra incolta su cui non cresce assolutamente niente, ma su cui si stende un cielo alto e tranquillo. Meglio così: in questo momento non mi fiderei di troppi pensieri brillanti, a volte preferisco lasciar riposare la testa, e attendere. Tante cose sono successe dentro di me, in questi ultimi giorni: ora, finalmente, qualcosa s'è cristallizzato. Ho guardato in faccia la nostra misera fine, che è già cominciata nei piccoli fatti quotidiani; e la coscienza di questa possibilità fa ormai parte del mio modo di sentire la vita, senza fiaccarlo. Non sono amareggiata o in rivolta, non sono neppure più scoraggiata o tanto meno rassegnata. Continuo indisturbata a crescere, di giorno in giorno, pur avendo quella possibilità dinanzi agli occhi. Non giocherò più con le parole che creano soltanto malintesi - per esempio: ho chiuso i conti con la vita, non può più succedermi niente, non si tratta di me e della mia distruzione ma del fatto che si distrugga. Così dico qualche volta agli altri, ma non ha molto senso, né riesco a spiegarmi - né importa, del resto. Con « aver chiuso i conti con la vita » voglio dire che la possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita; questa è come resa più ampia da quella, dall'affrontare ed accettare la fine come parte di sé. E dunque non si tratta, per così dire, di offrire un pezzetto di vita alla morte perché si teme e si rifiuta quest'ultima, la vita che ci rimarrebbe allora sarebbe ridotta a un ben misero frammento. Sembra quasi un paradosso: se si esclude la morte non si ha mai una vita completa; e se la si accetta nella propria vita, si amplia e si arricchisce quest'ultima. È la prima volta che ho da confrontarmi con la morte. Non ho mai saputo bene come comportarmi con lei, sono vergine nei suoi confronti. Non ho mai visto una persona morta. Che strano: in questo mondo disseminato di milioni di cadaveri io, a ventotto anni, non ne ho ancora visto uno. Qualche volta mi sono chiesta quale fosse il mio atteggiamento nei confronti della morte; in realtà, non me ne sono mai preoccupata per me stessa, non era ancora il momento. E ora la morte è qui, in tutta la sua grandezza - e già è come una vecchia conoscenza che fa parte della vita e che si deve accettare. È tutto cosi semplice. Non c'è bisogno di fare profonde considerazioni. D'un tratto la morte - grande, semplice, e naturale - è entrata quasi tacitamente a far parte della mia vita. E adesso io so che appartiene alla vita.
Ecco, ora posso dormire in pace. Sono le dieci di sera. Oggi non ho combinato molto, ma avevo da fare i conti con i miei piedi pieni di vesciche, dopo quei lunghi giri per la città tanto calda, e con altre piccole miserie simili: ogni cosa doveva essere sofferta e accettata. A un certo punto mi ha preso un
gran scoraggiamento e insicurezza, e sono passata un momento da lui. Aveva mal di testa ed era preoccupato, in genere tutto funziona alla perfezione in quel corpo robusto. Sono stata un momento fra le sue braccia ed era così dolce e caro, quasi malinconico. Credo che per noi incominci una fase nuova, ancora più seria, intensa, e concentrata sulle cose essenziali. Ogni giorno ci si libera di qualche piccolezza. « Il nostro annientamento è vicino, non possiamo più illuderci ». Domani notte dormirò nel letto di Dicky,* S. dormirà al piano di sotto e alla mattina verrà su a svegliarmi. Tutto questo è ancora
possibile. E sapremo ben trovare il modo di aiutarci reciprocamente, nei tempi difficili che verranno.
Un po' più tardi. E se anche non avessi avuto niente da questa giornata - neppure, da ultimo, questo positivo e aperto confrontarmi con la morte -, non dovrei dimenticare quel soldato tedesco kasher* che si trovava al chiosco col suo sacco di carote e cavolfiori. Prima, sul tram, le aveva messo in mano un biglietto, e poi c'era stata quella lettera che dovrò ben leggere una volta: gli ricordava tanto la figlia di un rabbino che lui aveva potuto ancora assistere giorno e notte, sul suo letto di morte. E stasera è andato a farle visita. E quando Liesl me l'ha raccontato, ho saputo all'istante che stasera avrei dovuto pregare anche per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. Ci saranno ancora
altri volti su cui potremo leggere e capire qualcosa. E questo soldato soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall'altra e si deve pregare per tutti. Buona notte.
Da ieri, di colpo, ho molti anni di più, so che la mia vita ha un termine. Non sono più scoraggiata, mi sento più forte. Si diventa più forti se si impara a conoscere e ad accettare le proprie forze e le proprie insufficienze. E tutto così semplice e sempre più evidente per me, vorrei vivere abbastanza a lungo
per farlo capire anche agli altri. E ora, per davvero, buona notte.

Dicky* = Dicky de Jonge. Uno degli amici di Etty
kasher* = « Ritualmente puro » (di cibo), ma nell'uso comune, detto di persona, e come si deve », « per bene ».

Diario 1941‐1943
Etty Hillesum
Traduzione Chiara Passanti

4 commenti:

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...