giovedì 7 aprile 2022

Imporre la propria legge

" 4. Lo scopo è di ridurre il nemico all'impotenza

Abbiamo detto che scopo dell'azione guerresca è mettere l'avversario nella impossibilità di difendersi: vogliamo ora piuttosto che ciò è necessario almeno in teoria. Perché l'avversario sia costretto ad accedere alla nostra volontà, dobbiamo costringerlo in una situazione il cui svantaggio sia superiore al sacrificio che da lui esigiamo: ma è naturale che questo svantaggio non deve essere, o almeno non deve apparire, transitorio, poiché in tal caso l'avversario attenderebbe un momento più propizio, anziché cedere. E perciò, ogni cambiamento apportato a questa situazione dal prolungarsi dell'attività bellica deve tendere a peggiorarla, almeno per quanto è prevedibile.
Ora, la posizione più svantaggiosa in cui uno Stato belligerante può trovarsi, è quella di esser ridotto all'impotenza. Se l'avversario deve essere, un mezzo dell'azione bellica, dobbiamo dunque o porlo realmente in stato d'impotenza, o metterlo in situazione tale che, secondo ogni probabilità, sia sul punto di esserlo.
La guerra deve dunque mirare sempre a disarmare, o ad abbattere che dir si voglia, l'avversario. Essa non suppone però il lavoro di una forza attiva contro una massa inerte, giacché un atteggiamento qualsiasi completamente passivo è incompatibile con condotta di guerra: consiste invece sempre nell'urto di due forze attive contrapposte, e quanto si è detto circa lo scopo finale dell ' attività bellica si
applica a entrambi i belligeranti. È, quindi, una nuova azione reciproca; finché non abbiamo abbattuto l'avversario, dobbiamo temere noi stessi di esserne abbattuti; non siamo più liberi; l'avversario ci impone la sua legge, come noi gli imponiamo la nostra. Secondo rapporto di azione reciproca, che conduce un secondo criterio illimitato.

5. Tensione estrema delle forze

Se vogliamo abbattere l'avversario, dobbiamo proporzionare il nostro sforzo alla sua capacità di resistenza. Questa si esprime col prodotto di due fattori inseparabili: entità dei mezzi disponibili e forza di volontà .
L'entità dei mezzi potrebbe venire approssimativamente determinato, poiché dipende (sebbene non completamente) in gran parte da elementi numerici. La forza di volontà è invece assai meno determinabile; si può tutt'al più congeturarla secondo l'importanza delle cause di guerra. Ammettendo di capacità per tale via una stima verosimile della resistenza avversaria, possiamo prenderla come misura dello sforzo da compiere, per dargli tale entità da assicurarci la preponderanza in ogni caso, o, se i nostri mezzi non sono a ciò sufficiente, dargli pur sempre la entità maggiore possibile. Ma l'avversario farà la stessa cosa. Nuova gara reciproca che tendenzialmente all'estremo: terzo rapporto di azione reciproca e terzo criterio illimitato che riscontriamo.

6. Modificazioni nella realtà

Nel campo delle considerazioni come tratte, il ragionamento non può riposare, finché non sia giunto all'estremo. Ciò deriva dall'assoluto esistente nella ipotesi di due forze contrastanti, abbandonate a loro stesse e non obbedienti che alle loro intrinseche leggi. E quindi, dal puro concetto astratto della guerra volessimo dedurre un punto assoluto in fatto di scopo e di mezzi da impiegare, dalle costanti interdipendenti saremmo condotti a estremi i quali se semplici logiche semplici giuochi del pensiero, seguenti un filo appena visibile di sottigliezze .
Tenendoci nel campo'assoluto ed evitando con un tratto di penna gli ostacoli, per mantenere con logica rigorosa la proposizione «che in ogni caso dobbiamo partecipare a essere condotti agli estremi e fare uno sforzo estremo», si dell'ipotesi a leggi semplicemente speculative , prive di ogni pratico valore. Anche insieme che la tensione delle forze fino all'estremo costituisca qualche cosa di concreto e di realizzabile, occorre tener presente che lo spirito umano si adatterebbe in pratica a simili fantasticherie della deduzione logica.In molti casi si dovrebbe verificare uno spiegamento di forze superfluo, in contrasto con altri principi dell'arte di governo, e uno sforzo di volontà spropor alla entità degli scopi e quindi impossibile, poiché la forza della volontà umana non trae origine mai da sottigliezze cerebrali . Se invece noi lasciamo l'astrazione per considerare la realtà, tutto cambia. Nel campo dell'astrazione predomina l'ottimismo. Vi si dovrebbe presumere che i due avversari non solo mirino alla perfezione, ma altresì la raggiungano. Ma perché in questa realtà si richiede, occorrerebbe:
1. che la guerra fosse un atto completamente isolato, improvviso, senza collegarsi con la vita statale antecedente;
2. che la guerra si riassumesse in una sola decisione o in decisioni sia pur multiple ma simultanee;
3. che la guerra potrebbe chiudersi nella stessa situazione un risultato definitivo e non fosse influenzata dalla previsione della politica che deve succederle.

7. La guerra non è mai un atto isolato

Circa il primo punto, occorre osservare che nessuno dei belligeranti è per l'altro una personalità astratta, anche nei riguardi di quello dei due fattori della resistenza che è imponderabile, e cioè la volontà. Questa non è infatti del tutto indeterminata: dal come si manifesta oggi si può dedurre ciò che sarà domani.
La guerra non nasce istantaneamente e non si espande in un battitore d'occhio: si quindi può giudicare l'avversario da quello che è o che fa, e non da quello che a rigor di termini dovrebbe essere e dovrebbe fare. Ora, l'imperfezione degli organismi umani è tale che si resta sempre al di qua dell'ideale, e queste  deficienze, influenti su entrambe le parti, costituiscono già un principio moderatore.

Odessa - Ucraina 2022

Odessa - Ucraina 2022

8. La guerra non consiste in un solo urto istantaneo

Il secondo punto ci porta alle seguenti considerazioni. Se la guerra consistesse in un decisivo unico o in una serie di atti decisivi contemporanei, tutti i preparativi per essa atto dovrebbero naturalmente tendere  riparare all'estremo, poiché una trascuratezza non potrebbe piùrsi. La misura del nostro sforzo, nel campo concreto, sarebbe allora determinato dal complesso dei preparativi dell'avversario, pur rimanendo il resto nel dominio dell'astratto. Ma se la decisione risulta da più atti successivi, è chiaro che i primi possono servire di misura a quelli che seguono. La realtà si sostituisce così ancora una volta all'astrazione, e modera la tendenza all'estremo.
La guerra si concluderebbe però in una decisione unica, o in una somma di decisioni simultanee se tutti i mezzi di combattimento erano o potessero venire messi ora in azione; infatti un sfavorevole risultato sono più essi necessari tali mezzi, e se già stati tutti impiegati in un primo atto, non si può pensare a effettuarne un secondo. Ogni atto successivo non potrebbe in sostanza che far parte del primo, prolungandone solo la durata.
Ma già preparati di guerra, nei due avversari sostituiranno la concezione astratta, la determinazza per tutte le forze sostitutive alla concezione estrema: non per questo, i due avversari, si manterranno al di dell'estremo limite degli non impegneranno quindi subito le loro . Di più, la natura stessa delle forze e del loro impiego esclude la possibilità di una messa in azione simultanea.
I fattori sono i combattenti , il paese con la sua superficie e la sua popolazione, gli alleati . Il paese con la sua superficie e la sua popolazione, oltre a essere la sorgente della forza combattente, è di per se stesso elemento integrato fattori operanti in guerra: e, precisamente, solo in quella sua parte che appartiene al teatro di guerra o esercita influenza importante sul medesimo. Quanto alle forze mobili, nulla impedirebbe di porle contemporaneamente in azione, ma non è così per le piazzeforti, i corsi d'acqua, le montagne, gli abitanti, ecc.: insomma, non si può mettere nello stesso tempo il paese in campo , a meno che non sia così piccolo da essere interamente abbracciato dal primo atto di guerra.
Infine, la cooperazione degli alleati non dipende dalla volontà dei belligeranti, ed è anzi nella natura dei rapporti politici che questa cooperazione intervenga solo in seguito, o si rafforzi per ristabilire l'equilibrio compromesso da eventuali difficoltà.
Vedremo meglio, in seguito, che quest'aliquota delle energie di resistenza, la quale non può essere posta immediatamente in azione, rappresenta in molti casi una parte, rispetto al tutto, molto maggiore di quanto possa a prima vista sembrare: e che perciò anche quando la prima decisione è stata attuata con grande violenza, producendo un grave disturbo nell'equilibrio delle forze, questo può tuttavia ristabilirsi; per ora bastimostrare che un concentrato istantaneo delle forze belligeranti è in contrasto colla natura della guerra.
Ciò non potrebbe invero, di per sé, potrebbe motivo a produrre gli sforzi destinati a produrre la prima decisione: giacché un primo sfavorevole è sempre risultato un insuccesso al quale non ci si espone scientemente; e la prima decisione, anche se non unica, avrà pur sempre tanta rimane maggiore influenza sulle successive, quanto maggiore sarà stata la sua importanza: ma la possibilità di una ulteriore decisione fa sì che lo spirito umano si mostri riluttante a sforzi troppo grandi, e che perciò nelle prime decisioni non concentrati e non tenda tutte le energie, come potrebbe invece fare. Ciò che da uno degli avversari è omesso per uno scopo, diviene per l'altro un vero motivo di moderazione; per questo reciproco influsso, le tendenze estreme vengono ricondotte a sforzi di grandezza limitata.

9. Il risultato della guerra non costituisce nulla di assoluto

Infine, l'esito anche totale di un'intera guerra non sempre deve essere considerato assoluto e definitivo; lo Stato ha vinto non vi scorge spesso che un male transitorio, al quale rapporti politici in avvenire possono apportare un supplemento. Si vede facilmente come anche questa considerazione influenza nel senso di ridurre la forza di tensione e la violenza dello sforzo bellico.

10. Le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all'estremo

In questo modo tutta l'azione bellica viene a sottrarsi alla legge rigorosa dell'impiego delle forze spinte all'estremo. Una volta che non si tema più l'estremo e non lo si ricerchi, la determinazione del limite dello sforzo guerresco viene lasciata a un apprezzamento, quale può essere fornito solo dalle leggi delle probabilità che si basano su elementi del mondo reale. Perché i due avversari non sono semplici astrazioni, ma Stati e governi reali, la guerra esce dal campo ideale per entrare in quello del determinismo delle cose. Ne consegue che quanto realmente esiste servirà a fornire dati per ciò che è ignoto e deve essere scoperto.In relazione al carattere, alle disposizioni, alla situazione, ciascuna ai rapporti esistenti nel campo dell'avversario, delle due parti può congetturare, secondo le leggi della probabilità, ciò che farà l'altra e regolare in conseguenza i propri atti. "

Della Guerra
Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz
Traduzione - Ambrogio Bollati ed Emilio Canevari

Vedi:



P.S. Il colore verde nel testo segnala il corsivo nell'originale

mercoledì 6 aprile 2022

Atto di forza

Strage a Bucha - Ucraina 2022

Strage a Bucha - Ucraina 2022

Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz nasce il 1° giugno del 1780 a Breslavia, vive durante il regno di Federico Guglielmo III, diventa membro dello Stato maggiore russo e generale dell'esercito prussiano; è l'autore di un saggio sulla guerra che viene fatto dalla pubblicazione postumo dalla moglie tra il 1832 e il 1837 poiché lui muore nel 1831 a causa del colera.
Il corposo libro di Clausewitz è un'opera incompiu divisa in 8 volumi da molte accademie militari è stato adottato come molte accademie di testo in quanto è considerato uno dei più trattati di militare; tra i suoi estimatori televisivi Edward Luttwak, romeno naturalizzato statunitense, consulente strategico del Governo degli Stati Uniti d'America che  pochi giorni fa in una nota trasmissione ", zero dunque siamo per Luttwak, come zero eravamo quando, seguendo sempre il suo pensiero, mangiavamo il gelato a Rimini mentre dall'altra parte dell'Adriatico a Sarajevo si moriva sotto le bombe, e si domanda perché non offriamo i nostri carri armati all'Ucraina invece di temere le ritorsioni russe.  , riferendosi agli italiani, ha detto: "dire che sono pacifista equivale a essere uno zero perché non si fa niente
Edward Luttwak dimostra davvero di aver capito e tutto di essere un grande polilogo che sostituisce l'analisi con le opinioni personali e ignora le vie traverse, che appartengono a tutti gli Stati, che non sono lui di dominio pubblico e che di certo a non deve essere palesato.
Comunque sia nel primo capitolo del suo testo, Clausewitz, in 28   risponde  alla domanda "Che cosa è la guerra?" 
Ecco qui sotto il secondo e il terzo:


" 2. Definizione

Non daremo della guerra una grave definizione scientifica; ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello.
La guerra non è che un duello su vasta scala. La moltitudine di duelli particolari di cui si compone, considerata nel suo insieme, può rappresentarsi con l'azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, un mezzo della propria forza fisica, costringere l'avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rende impossibile ogni ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza che ha per scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà. La forza si arma delle invenzioni delle arti e delle scienze per misurare contro la forza. Essa è accompagnata da un diritto insignificante, che meritano appena di essere nominato, alle quali si dà il nome di diritto delle genti , ma che non hanno diritto di affirne l'energia. La forza intesa nel suo senso fisico (poiché all'infuori dell'idea di Stato e di Legge non vi è forza morale) è dunque il mezzo; lo scopo è di imporre la nostra volontà al nemico.
Per raggiungere con sicurezza tale scopo occorre che il nemico sia posto nella impossibilità di difendersi; e questo è, per definizione, il vero obbiettivo dell'atto di guerra; esso rappresenta lo scopo, e lo respinge, in certo qual modo, come alcunché di non appartenere alla guerra propriamente detta.

3. Impeego assoluto della forza

Gli spiriti umani potrebbero immaginare che esistono metodi tecnici per disarmare o abbattere l'avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell'arte militare. Per quanto seducente ne sia l'apparenza, occorre eliminare tale errore poiché, in questione così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d'animo quelli maggiormente perniciosi. Poiché l'impiego della forza fisica in tutta la sua portata non esclude affatto la cooperazione dell'intelligenza, colui che impiega tale forza senza restrizione, senza risparmio di sangue, acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto e gli detta in conseguenza la propria legge;ed entrambi i principi di azione tendono così verso l'assoluto, senza trovare altri limiti che nei contrappesi insiti in essi. 
È così che la questione dev'essere considerata: e rappresenta uno sforzo non solo vano, ma illogico, il lasciare da parte l'elemento forza per avversione a esso. Se le guerre fra nazioni civili sono meno crudeli e devastatrici di quelle fra i selvaggi, ciò deriva dalle singole condizioni sociali degli Stati e da quelle degli Stati considera nei reciproci rapporti. La guerra nasce da queste condizioni e da questi rapporti sociali che la determinano, la limitata, la moderata; ma tali modifiche non sono inerenti alla guerra, possono nascere solo elementi contingenti: mai si può includere un principio moderatore nell'essenza della stessa guerra, senza commettere una vera assurdità. 
La lotta fra gli uomini si fonda su due diversi elementi: il sentimento ostile e l'intenzione ostile . Nella nostra definizione della guerra ci siamo basati sul secondo perché più generale; non possiamo infatti pensare all'odio, anche il più selvaggio, quello che si avvicina all'istinto, separandolo dall'intenzione ostile, mentre esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almeno non accompagnate, da inimicizia preconcetta. Presso i popoli barbari predominano i progetti sulla riflessione; ma questa differenza non deriva dalla natura intima della barbarie o della civiltà, bensì dalle circostanze, dalle istituzioni, ecc. che l'accompagnano.Non esiste necessariamente in ogni singolo caso, ma la si nel maggior numero dei casi. In una parola, le più violente passioni possono accendersi anche fra i popoli più civili. Si vede quindi come sia lungi dal vero il figurarsi la guerra fra Stati civili come un semplice e razionale atto di governo, e il considerarla come avulsa da ogni passione, sì che, in definitiva, non abbia bisogno dell'azione fisica delle masse di combattenti , e possa far calcolo soltanto sui loro rapporti astratti, sì da ridurre la guerra a una specie di operazione algebrica.
La teoria cominciava però a incamminarsi su questa strada, quando i fenomeni delle recenti guerre rettificarono le idee. La guerra, essendo atto di violenza, ha necessarie attinenze col sentimento; se essa non ne trae origine, vi farà capo tuttavia più o meno, a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto.
È chiaro che se i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e villaggi, ciò deriva dal fatto che l'intelligenza ha in essi parte maggiore nella condotta della guerra e ha loro rivelato l'esistenza di mezzi d'impiego della forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni brutali dell'istinto.
L'invenzione della polvere, il perfezionamento delle armi da dimostrare già idoneo che la tendenza alla distruzione dell'avversario, in un concetto della guerra, non è stato in realtà stornata, o alterata, dal progresso civile.
Confermiamo dunque: la guerra è un atto di forza, all'impiego della quale non esistono limiti : i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un'azione reciproca che logicamente deve condurre all'estremo. Ecco dunque un primo rapporto di azione reciproca e un primo criterio illimitato, cui l'analisi ci conduce. "

Della Guerra
Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz
Traduzione - Ambrogio Bollati ed Emilio Canevari

P.S. Il colore verde nel testo segnala il corsivo nell'originale

domenica 3 aprile 2022

Il cielo azzurro della primavera

Ma ecco già il principio di aprile, ecco che già si avvicina anche la Settimana Santa. A poco a poco cominciano i lavori estivi. Il sole è ogni giorno più caldo e più luminoso; l'aria odora di primavera e ha un'azione irritante sull'organismo. Le belle giornate che sopravvengono agitano anche l'uomo in catene; fanno germogliare in lui non so che desideri, aspirazioni, angosce. Pare che la nostalgia della libertà la si senta ancora più forte sotto i vividi raggi del sole che in una brutta giornata d'inverno o d'autunno, e questo lo si nota in tutti i detenuti. Essi hanno bensì l'aria di esser lieti delle giornate serene, ma nello stesso tempo cresce in loro una specie d'impazienza, d'impulsività.
Davvero, ho notato che in primavera gli alterchi nel nostro reclusorio sembravano farsi più frequenti. Più spesso si udivano strepiti, grida, baccano, più spesso nascevano beghe; in pari tempo ti accadeva di sorprendere tutt'a un tratto in qualche posto, sul lavoro, uno sguardo pensoso e ostinato teso verso lo sfondo azzurrino, verso un qualche punto laggiù, sull'altra sponda dell'Irtis, dove incomincia, come un'immensa tovaglia, lunga millecinquecento verste, la libera steppa chirghisa; o sorprendevi qualcuno a sospirare profondamente, con tutto il petto, come se l'individuo anelasse a respirare quell'aria lontana e libera e a dare così sollievo all'anima oppressa, incatenata. "Ahimè!", dice alla fine il detenuto e a un tratto, come scuotendo da sé le fantasticherie e l'esitazione, impaziente e arcigno, dà di piglio alla zappa o ai mattoni che bisogna trasportare da un luogo a un altro. Dopo un minuto egli già dimentica la sua improvvisa sensazione e comincia a ridere o a ingiuriare, secondo il suo carattere; oppure di colpo, con insolita foga, del tutto sproporzionata al bisogno, si applica al suo compito, se gli è stato assegnato, e si mette a lavorare, a lavorare con tutte le forze, come se volesse soffocare in sé, col peso del lavoro, qualcosa che lo urge e l'opprime dal di dentro. Tutta questa è gente vigorosa, per la maggior parte nel fiore degli anni e delle forze... Pesanti sono i ferri ai piedi in questa stagione! Io non faccio della poesia in questo momento e sono sicuro che la mia osservazione è giusta. A parte il fatto che al caldo, in mezzo al sole vivo, quando, con tutta l'anima, con tutto l'essere tuo, odi e senti intorno a te la natura che rinasce con immenso vigore, ancora più gravi ti diventano la chiusa prigione, la scorta e l'altrui volontà; a parte ciò, in questa stagione primaverile comincia per tutta la Siberia e per tutta la Russia, con l'apparire della prima allodola, il vagabondaggio: le creature di Dio fuggono dai reclusori e si rifugiano nelle foreste. Dopo aver provato la tomba soffocante, i tribunali, i ferri ai piedi e i bastoni, esse vagabondano in piena balìa di se stesse là dove vogliono, dove la vita è più attraente e più agevole; bevono e mangiano dove e quello che capita, quello che manda Iddio, e la notte si addormentano placidamente dove che sia, in un bosco o in un campo, senza grandi fastidi, senza l'angoscia del carcere, come gli uccelli della foresta, dicendo addio per la notte alle sole stelle del cielo, sotto l'occhio di Dio...
... nel suo insieme, la vita vagabonda, nelle foreste, era un paradiso di fronte a quella del reclusorio. La cosa è tanto comprensibile, ne può esserci confronto. Anche se è una dura sorte, sei pur sempre libero. Ecco perché ogni detenuto in Russia, dovunque si trovi, diventa come inquieto in primavera, coi primi invitanti raggi del sole primaverile. Benché poi ben pochi abbiano intenzione di fuggire: si può dire positivamente che vi si risolve, date le difficoltà e la responsabilità a cui si va incontro, uno su cento; ma in cambio gli altri novantanove per lo meno fantasticano sul come si potrebbe fuggire e dove si avrebbe da fuggire; per lo meno si consolano col solo desiderio, col solo immaginarsi la possibilità della fuga. Qualcuno magari ricorderà di essere evaso in qualche tempo lontano...
...La primavera esercitava il suo influsso anche su di me. Mi ricordo che a volte guardavo avidamente dalle fessure tra i pali e rimanevo in piedi a lungo, con la testa appoggiata al nostro steccato, osservando, ostinato e insaziabile, come verdeggiasse l'erba sul bastione della nostra fortezza e come sempre più carico si facesse l'azzurro del cielo lontano. La mia inquietudine e la mia angoscia crescevano di giorno in giorno e il reclusorio mi diventava sempre più odioso...

Il cielo azzurro di primavera

...E perciò la primavera, il fantasma della libertà, la letizia universale della natura avevano in me, in certo qual modo, anche una triste e irritante risonanza. Alla fine della quaresima, mi pare nella sesta settimana, mi toccò far le divozioni. Tutto il reclusorio, fin dalla prima settimana, era stato diviso dal sottufficiale anziano in sette turni, in base al numero di settimane della quaresima, per far le divozioni. Ciascun turno era risultato in tal modo di una trentina d'uomini. La settimana delle divozioni mi piacque molto. I partecipanti erano esentati dal lavoro. Noi andavamo alla chiesa, che non era lontana dal reclusorio, due o tre volte al giorno. Da lungo tempo non ero stato in chiesa.
Le funzioni quaresimali, a me così note fin dalla lontana infanzia, nella casa paterna, le solenni preghiere, le genuflessioni, tutto ciò rimescolava nell'anima mia un passato lontano lontano, mi ricordava le impressioni degli anni infantili e mi rammento che era per me un gran piacere quando al mattino, sul terreno che era gelato durante la notte, solevano condurci sotto scorta, coi fucili carichi, nella casa di Dio. La scorta del resto non entrava in chiesa. Noi ci collocavamo in folto gruppo proprio vicino alla porta, proprio negli ultimi posti, cosicché si poteva udire tutt'al più il vocione del diacono o scorgere, di dietro la folla, la nera pianeta e la calvizie del sacerdote. Io rammentavo come un tempo, ancora bambino, stando in piedi in chiesa, guardassi a volte la gente del popolo che faceva ressa vicino all'entrata e servilmente si traeva da parte dinanzi a due fitte spalline, a un grasso signore o a una agghindatissima, ma oltremodo pia signora, che non mancavano mai di farsi avanti verso i primi posti e per il primo posto erano pronti in ogni momento a litigare. Mi pareva allora che là, presso l'entrata, si pregasse anche in modo diverso che da noi, si pregasse umilmente, con fervore, con profonde genuflessioni e con una certa piena consapevolezza del proprio umile stato.
Ora toccò anche a me stare in piedi in quegli stessi posti, e anche in peggiori condizioni: noi eravamo incatenati e coperti d'infamia; tutti si scostavano da noi, tutti anzi avevano l'aria di temerci, ogni volta ci facevano la carità, e ricordo che ciò mi era perfino, in certo qual modo, gradito e una certa qual raffinata, speciale sensazione coloriva quel mio strano piacere.
"E sia pure, se è così!", pensavo. I detenuti pregavano con molto zelo e ciascuno di loro portava in chiesa ogni volta la sua povera copeca per una candeletta o la deponeva nella cassetta della questua: "Sono anch'io un uomo", forse egli pensava o sentiva porgendola, "davanti a Dio tutti sono uguali". Noi facevamo la comunione dopo la prima messa. Quando il sacerdote, col calice nelle mani, recitava le parole: "... ma accoglimi come il ladrone", quasi tutti si prosternavano facendo risonare i ferri, e prendendo, mi pare, queste parole letteralmente a proprio conto.

Memorie dalla casa dei morti
Fedor M. Dostoevskij
Traduzione - Augusta Osimo Muggia


Nota: Il 23 aprile del 1849 Fedor M. Dostoewskij, con l'accusa di far parte di una società segreta che persegue finalità sovversive, viene arrestato e condannato a morte; il 22 dicembre giorno dell'esecuzione arriva la notizia della grazia concessa dallo zar Nicola I che commuta la pena capitale in condanna ai lavori forzati; il 24 dicembre inizia il viaggio che lo deporta in Siberia, l'11 gennaio 1850 giunge a Tobol'sk e il 17 gennaio viene rinchiuso nella fortezza di Omsk dove lavora l'alabastro e trasporta mattoni per 4 anni e con gli altri detenuti si muove in un recinto formato da 1500 pali di quercia; nel febbraio del 1854 ritrova la semilibertà per buona condotta e conclude la sua pena entrando a far parte per 2 anni del 7º battaglione siberiano dell'esercito come soldato semplice di stanza a Semipalatinsk.
L'esperienza dolorosa della reclusione, che peggiora le sue condizioni fisiche già compromesse dall'epilessia, viene raccontata in forma romanzata in Memorie dalla casa dei morti pubblicato tra il 1861 e il 1862.

venerdì 1 aprile 2022

Pesce d'Aprile di ceneri

Il 2 aprile 1996 La Stampa pubblicava un trafiletto sul Pesce d'Aprile, eccolo:

Pesce d'Aprile - La Stampa - 2 aprile 1996

Pesce d'Aprile - La Stampa - 2 aprile 1996


MOSCA. L'agenzia russa Itar-Tass ha messo ieri un succoso pesce d'aprile che ha provocato una reazione allarmata nei Paesi dell'Europa dell'Est già preoccupati dai sogni revanchisti della Duma miranti al ripristino dell'Unione sovietica.
Sotto la testata «Russia-Nato-April», l'Itar-Tass ha mandato in rete una notizia secondo la quale in seno al Parlamento russo un non meglio precisato «gruppo di esperti» della Duma sta elaborando un progetto di risoluzione per chiedere di risuscitare dalle ceneri anche il Patto di Varsavia, l'alleanza militare tra Mosca e i suoi satelliti dell'Europa orientale in funzione anti-occidentale. Ha inoltre riferito la dichiarazione di uno di questi esperti, sempre protetto dall'anonimato, secondo il quale il documento, composto di una sola pagina, ha l'obiettivo di contrastare i piani Nato di espansione a Est.
La notizia ha suscitato reazioni particolarmente allarmante a Praga.

[Agi]

Sono passati ben 26 anni meno 1 giorno
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