Intellettuale, cineasta, scrittore, poeta, musicista, pittore, contestatore controcorrente sempre dalla parte degli ultimi, nato a Bologna il 5 marzo 1922, ucciso a 53 anni il 2 novembre del 1975 all'idroscalo di Ostia.
Oggi cento anni dalla sua nascita.
Pier Paolo Pasolini in un ricordo di Dacia Maraini:
Caro Pier Paolo,
stanotte ti ho sognato. Avevi il solito sorriso dolce e mi dicevi: «Sono qua!». Poi ti toglievi una specie di gilet color malva e aggiungevi: «Fa caldo».
Stavo per abbracciarti, felice di rivederti, quando sei scomparso. Per terra era rimasto il tuo gilet color magenta. Ho fatto per raccoglierlo, ma anche quello è sparito. Al suo posto ho visto un geco spaventato che correva verso la parete.
È cosí strano che dopo tanti anni, nel sonno, io trovi ancora il modo di ricordarti e di vederti. Sei sempre il giovane cinquantenne che ho frequentato negli anni Sessanta e Settanta: il corpo agile, sportivo, la faccia seria, non imbronciata, ma pensosa, lo sguardo sognante, il passo deciso e sempre pronto a correre.
Anche stanotte eri in piedi, pronto a scattare, e avevi uno sguardo mite, interrogativo. Lo sguardo che mi era familiare e che amavo. Curioso come le amicizie a volte si dipanino attraverso gli sguardi. Quante cose contengono quelle due pupille pronte a ingoiare il tempo. Ora vivi, infatti, solo nei miei occhi interni e ti muovi dentro lo straordinario spazio che lo sguardo degli occhi chiusi comprende.
Tante volte sparivi mentre eri vivo, quando camminavamo insieme, o mentre pranzavamo in una bettola africana. Avevi questa capacità di evadere dalla compagnia, soprattutto quando era troppo numerosa.
«Dov’è Pier Paolo? Era qui un momento fa».
E ci mettevamo a cercarti. Ma ecco che, in capo a qualche minuto, tu riapparivi, gioioso anche se stanco, e riprendevi a pescare distrattamente nel tuo piatto, o a bere quel latte che ti avevano ordinato dopo la crisi di ulcera, al posto del vino.
Quanti bicchieri di latte ti ho visto sorseggiare. Non so se ti piacesse il latte. Facevi una piccola smorfia quando posavi il bicchiere e spesso ti rimanevano due piccoli baffi bianchi all’angolo delle labbra. Ti avevano proibito i sughi, i fritti, le spezie, gli alcolici e tu ti adeguavi con una pazienza che in altri campi non avevi.
Tua madre, diligentemente, cucinava per te il pesce bollito, la carne ai ferri, le verdure al vapore. E se era stanca, c’era Graziella, la generosa e accudente giovane cugina che preparava amorevolmente i cibi adatti al tuo stomaco recalcitrante.
Quando abbiamo messo su casa insieme a Sabaudia, spesso ero io a cucinare per le nostre cene. Venivi volentieri da noi, percorrendo la lunga terrazza che avevamo in comune. Alberto sceglieva il pesce nel pomeriggio, dopo una mattinata di scrittura, e io lo mettevo in pentola. Cercavo di rendertelo un poco saporito col cumino, col limone spremuto, ma tu non ti lamentavi mai. A me piaceva cucinare e a te sederti a tavola con noi.
Parlavi poco, sei sempre stato di poche parole, ma i tuoi silenzi non erano stranianti, erano un modo tutto tuo di concentrarti su un pensiero comune che si esprimeva in una affettuosità condivisa. In compenso ti piaceva che Alberto parlasse anche per te. Ti piaceva ascoltarlo quando raccontava le sue peripezie letterarie o di vita. Alberto era uno straordinario raccontatore di storie e pendevamo tutti dalle sue labbra quando imboccava la strada dei boschi narrativi.
A un certo punto della serata, sparivi. Ma quando non eravamo in viaggio, non ci preoccupavamo. Sapevamo che prendevi la tua veloce automobile e andavi in cerca di quel ragazzino che eri stato e che ti sfuggiva da sempre.
Caro Pier Paolo
Dacia Maraini
" ... Tu non ridi: e dai tigli e altre piante dimenticate
porti le forme di una nuova storia che vivi seriamente,
come un’ape infelice, col cuore indollato.
Queste forme son morte. La loro vita consiste
in una calma frenesia fatica che inganna il tempo.
Perché, quel giorno, dovra pur tornare.
La vita delle forme morte: un azzurro sorprendente,
un arancione umilmente misto al giallo degli oggetti utili
(ch’io parlo d’un pittore,
e con la testa, morta, ragiono, ragiono).
L’utilizzazione dell’energia atomica tara i manufatti:
che volano come tappeti tarlati
o angeli schiacciati con le budella e il sangue
resi poi preziosi dai magici fissatori d’antan.
Dietro la pupilla supplice della madre c’era un diaframma:
e l’ape volata dentro la vita della madre, beata,
tornando indietro, nella sua catabasi, si batte il capo.
So che, intanto, i tigli tornano inauditi a profumare.
Quel giorno, dicevo, dovra pur tornare, o venire.
Riempi il tempo che ce ne separa, senza rimpiangere
i sanguigni vincastri, nell’ombra serale o coi tuoni,
intorno ai rettangoli di grano verde;
non rimpiangi, ma riempi il tempo che ci separa
Con calma, ripeto. Con la calma di chi dice
buon giorno buona sera, buon giorno sera al vicino;
non importa se estinto.
Fila, baco.
Con calma; con la mano che pare non avere nervi!
con la mano che pare non avere nervi!
con la mano che pare non avere nervi!
La mano di una rana sacra; di una lumaca
solidale con la luna, le acque, e la spirale
dei bassorilievi nel tufo; dell’Ibo commestibile;
dell’antico malato di Hiroscima ... "
I reca*
Pier Paolo Pasolini
I reca*= I fiumi in croato
E con immenso affetto abbraccio Danila, Tiziano, Bruno e tutta la famiglia di Tomaso Scarpel che alle 6.00 di ieri mattina ci ha lasciati.
Sarai sempre nel mio cuore
" Sono nato l’ 8 settembre 1930, da genitori poveri, ma con tanto orgoglio. Mio padre era del 1892 e mia madre del 1898. Io ero il penultimo di cinque figli.
Mio padre non aveva altra soluzione che cercare lavoro all’estero e quindi, tutti gli anni, in primavera, partiva per cercare lavoro in Francia, in Germania, o in qualche località italiana dove ce ne fosse.
Quando avevo cinque o sei anni, vedevo mio padre che alla fine di febbraio preparava le valigie, mentre mia madre, con le lacrime agli occhi, gli raccomandava di stare attento, perché di solito i suoi lavori comportavano un certo pericolo. Era manovale, ma avrebbe potuto trovarsi in situazioni rischiose quando lavorava nelle gallerie che potevano anche franare all’improvviso. Ricordo che, quando lo accompagnavo alla corriera, lo vedevo nascondere il suo dolore per il fatto di lasciare la famiglia.
Nella piazza dove sostava la corriera non era solo lui a partire; ce n’erano molti altri, tutti con lo stesso problema: la sopravvivenza delle loro famiglie. La nostra era una zona di forte emigrazione e l’ ottanta per cento degli uomini espatriava per trovare un lavoro stagionale.
La zona di cui parlo si trova ai piedi dei colli coltivati a vigneto, dove si produce il Prosecco. Eravamo orgogliosi di chiamare quella località “Quartiere del Piave” perché la distanza dal mio paese natìo alle sponde del Piave è di circa tre chilometri.
Prima della mia nascita, dal 1915 al 1918, tutta l’area attorno a noi fu teatro della prima guerra mondiale e mio padre vi partecipò come soldato di fanteria. Di conseguenza la vita era piena di stenti e le donne aspettavano con ansia il poco denaro che i mariti potevano inviare, facendo i più svariati lavori. Da sempre questi emigranti erano la spina dorsale dell’economia del paese, pur svolgendo dei lavori molto faticosi. Ogni anno, puntualmente, qualcuno ci rimetteva la pelle e tutta la comunità contribuiva a far rientrare la salma, accollandosi le relative spese.
La vita però continuava sempre onestamente. Ricordo che, quando io e quelli della mia età cominciammo ad andare alla scuola elementare, eravamo tutti contenti.
Era l’epoca del fascismo ed io entrai a far parte dei “Figli della Lupa”. Ad ogni piccola ricorrenza politica o istituzionale, ci si metteva un cinturone a forma di X nella parte anteriore, ed al centro campeggiava una grande M, iniziale di Mussolini.
Passò del tempo e a nove anni divenni Balilla, cambiando completamente la divisa: camicia nera con copricapo nero munito dello stemma che rappresentava il Littorio, tipico del fascismo.
Siamo negli anni difficili per tutti, 1937 - 1940, in un piccolo paese che vive a stento, dove il novanta per cento degli uomini erano emigrati stagionali.
Mia mamma, per sbarcare il lunario, cercava in tutti i modi di guadagnare qualche lira per i suoi cinque figli, facendo la lavandaia per i soldati alloggiati nei vecchi edifici delle scuole. Lavava e stirava, utilizzando ogni minuto per il benessere della famiglia.
In quel periodo le scarpe costavano molto e i soldi non erano mai abbastanza. Un giorno vidi mia mamma con un vecchio copertone di bicicletta in mano, lei mi chiamò e mi misurò la pianta del piede, poi con un vecchio coltello ben affilato ritagliò due pezzi a forma di piedi; rimasi sorpreso quando vidi che stava lavorando con della vecchia tela di canapa e altri strani ritagli.
Due giorni dopo erano nati un paio di sandali. Fu una cosa geniale per tutta la famiglia, ne confezionò un paio, erano molto leggeri e ci si camminava comodamente. Le voci si sparsero in fretta ed in paese tutti ne parlavano. Ogni giorno andavano a chiedere a mia madre se poteva farne anche per loro e le portavano vecchie stoffe di tutti i tipi. Mia madre andò da un vecchio calzolaio e gli chiese se poteva avere una vecchia forma di ferro, quella dove si appoggiano le scarpe per ripararle. Il calzolaio guardò nel suo magazzino e le regalò uno di quei ferri. Ricordo come fosse ieri come era felice. Aveva trasformato la piccola stanza dove viveva in un vero laboratorio pieno di forme e misure varie di piedi.
Non aveva mai tempo per riposare; quel lavoro le dava una certa sicurezza per i suoi cinque figli.
Un giorno arrivò una signora considerata in paese una persona benestante, portò un pacco con della stoffa e disse: - “Maria, guarda se con questa stoffa puoi fare un bel paio di sandali per me e le mie figlie”. Mia mamma esaminò attentamente la stoffa e disse: “Tutto si può fare, ma questa stoffa non è duratura; se lei accetta io mi prendo questa stoffa e le metto della tela molto resistente e di sicuro verrà bene. La signora rispose che per lei andava bene. Mia mamma guardò quella stoffa e vide che era un pezzo molto grande e che forse avrebbe potuto realizzare qualcosa di molto importante. In paese intanto si stavano facendo dei preparativi per i bambini, perché dopo qualche settimana avrebbero fatto la prima comunione e tutti pensavano al vestito per i comunicandi. Detto e fatto, mia mamma mi prese e mi portò dal vecchio sarto che in paese faceva di tutto e gli chiese se la stoffa sarebbe bastata per un piccolo giubbino e un paio di pantaloni per il suo bambino, che a breve avrebbe fatto la prima comunione. Il sarto prese le misure e con diverse giunture quasi invisibili le confezionò un vestitino carino. Venne il giorno della prima comunione e anche un povero bambino fece la sua bella figura. Questa storia sembra una favola, ma è una storia vera. Ve lo può testimoniare quel bambino, Perché quel bambino ero io.
Nel 1940 con l’inizio della seconda guerra mondiale cominciarono i grandi problemi per l’Italia. "
Dal Libro "La mia vita - Tomaso Scarpel " - Cap 1
regalato a tutti gli amici blogger
Due vite quasi coetanee, due tratti di vita raccontati: dura e quasi ostica la poesia di Pasolini, commovente la vita di Tomaso. Due grandi persone che si sarebbero piaciute... hai fatto bene a racchiuderle in un unico post di saluto.
RispondiEliminaDacia Maraini ha una grazia insuperabile e la sua voce pacata ma sicura, mi rassicura e conforta.
Che grande cuore il tuo, Sciarada.
Una vita intensa per tutti e due. Condoglianze alla famiglia di Tomaso.
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