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domenica 3 aprile 2022

Il cielo azzurro della primavera

Ma ecco già il principio di aprile, ecco che già si avvicina anche la Settimana Santa. A poco a poco cominciano i lavori estivi. Il sole è ogni giorno più caldo e più luminoso; l'aria odora di primavera e ha un'azione irritante sull'organismo. Le belle giornate che sopravvengono agitano anche l'uomo in catene; fanno germogliare in lui non so che desideri, aspirazioni, angosce. Pare che la nostalgia della libertà la si senta ancora più forte sotto i vividi raggi del sole che in una brutta giornata d'inverno o d'autunno, e questo lo si nota in tutti i detenuti. Essi hanno bensì l'aria di esser lieti delle giornate serene, ma nello stesso tempo cresce in loro una specie d'impazienza, d'impulsività.
Davvero, ho notato che in primavera gli alterchi nel nostro reclusorio sembravano farsi più frequenti. Più spesso si udivano strepiti, grida, baccano, più spesso nascevano beghe; in pari tempo ti accadeva di sorprendere tutt'a un tratto in qualche posto, sul lavoro, uno sguardo pensoso e ostinato teso verso lo sfondo azzurrino, verso un qualche punto laggiù, sull'altra sponda dell'Irtis, dove incomincia, come un'immensa tovaglia, lunga millecinquecento verste, la libera steppa chirghisa; o sorprendevi qualcuno a sospirare profondamente, con tutto il petto, come se l'individuo anelasse a respirare quell'aria lontana e libera e a dare così sollievo all'anima oppressa, incatenata. "Ahimè!", dice alla fine il detenuto e a un tratto, come scuotendo da sé le fantasticherie e l'esitazione, impaziente e arcigno, dà di piglio alla zappa o ai mattoni che bisogna trasportare da un luogo a un altro. Dopo un minuto egli già dimentica la sua improvvisa sensazione e comincia a ridere o a ingiuriare, secondo il suo carattere; oppure di colpo, con insolita foga, del tutto sproporzionata al bisogno, si applica al suo compito, se gli è stato assegnato, e si mette a lavorare, a lavorare con tutte le forze, come se volesse soffocare in sé, col peso del lavoro, qualcosa che lo urge e l'opprime dal di dentro. Tutta questa è gente vigorosa, per la maggior parte nel fiore degli anni e delle forze... Pesanti sono i ferri ai piedi in questa stagione! Io non faccio della poesia in questo momento e sono sicuro che la mia osservazione è giusta. A parte il fatto che al caldo, in mezzo al sole vivo, quando, con tutta l'anima, con tutto l'essere tuo, odi e senti intorno a te la natura che rinasce con immenso vigore, ancora più gravi ti diventano la chiusa prigione, la scorta e l'altrui volontà; a parte ciò, in questa stagione primaverile comincia per tutta la Siberia e per tutta la Russia, con l'apparire della prima allodola, il vagabondaggio: le creature di Dio fuggono dai reclusori e si rifugiano nelle foreste. Dopo aver provato la tomba soffocante, i tribunali, i ferri ai piedi e i bastoni, esse vagabondano in piena balìa di se stesse là dove vogliono, dove la vita è più attraente e più agevole; bevono e mangiano dove e quello che capita, quello che manda Iddio, e la notte si addormentano placidamente dove che sia, in un bosco o in un campo, senza grandi fastidi, senza l'angoscia del carcere, come gli uccelli della foresta, dicendo addio per la notte alle sole stelle del cielo, sotto l'occhio di Dio...
... nel suo insieme, la vita vagabonda, nelle foreste, era un paradiso di fronte a quella del reclusorio. La cosa è tanto comprensibile, ne può esserci confronto. Anche se è una dura sorte, sei pur sempre libero. Ecco perché ogni detenuto in Russia, dovunque si trovi, diventa come inquieto in primavera, coi primi invitanti raggi del sole primaverile. Benché poi ben pochi abbiano intenzione di fuggire: si può dire positivamente che vi si risolve, date le difficoltà e la responsabilità a cui si va incontro, uno su cento; ma in cambio gli altri novantanove per lo meno fantasticano sul come si potrebbe fuggire e dove si avrebbe da fuggire; per lo meno si consolano col solo desiderio, col solo immaginarsi la possibilità della fuga. Qualcuno magari ricorderà di essere evaso in qualche tempo lontano...
...La primavera esercitava il suo influsso anche su di me. Mi ricordo che a volte guardavo avidamente dalle fessure tra i pali e rimanevo in piedi a lungo, con la testa appoggiata al nostro steccato, osservando, ostinato e insaziabile, come verdeggiasse l'erba sul bastione della nostra fortezza e come sempre più carico si facesse l'azzurro del cielo lontano. La mia inquietudine e la mia angoscia crescevano di giorno in giorno e il reclusorio mi diventava sempre più odioso...

Il cielo azzurro di primavera

...E perciò la primavera, il fantasma della libertà, la letizia universale della natura avevano in me, in certo qual modo, anche una triste e irritante risonanza. Alla fine della quaresima, mi pare nella sesta settimana, mi toccò far le divozioni. Tutto il reclusorio, fin dalla prima settimana, era stato diviso dal sottufficiale anziano in sette turni, in base al numero di settimane della quaresima, per far le divozioni. Ciascun turno era risultato in tal modo di una trentina d'uomini. La settimana delle divozioni mi piacque molto. I partecipanti erano esentati dal lavoro. Noi andavamo alla chiesa, che non era lontana dal reclusorio, due o tre volte al giorno. Da lungo tempo non ero stato in chiesa.
Le funzioni quaresimali, a me così note fin dalla lontana infanzia, nella casa paterna, le solenni preghiere, le genuflessioni, tutto ciò rimescolava nell'anima mia un passato lontano lontano, mi ricordava le impressioni degli anni infantili e mi rammento che era per me un gran piacere quando al mattino, sul terreno che era gelato durante la notte, solevano condurci sotto scorta, coi fucili carichi, nella casa di Dio. La scorta del resto non entrava in chiesa. Noi ci collocavamo in folto gruppo proprio vicino alla porta, proprio negli ultimi posti, cosicché si poteva udire tutt'al più il vocione del diacono o scorgere, di dietro la folla, la nera pianeta e la calvizie del sacerdote. Io rammentavo come un tempo, ancora bambino, stando in piedi in chiesa, guardassi a volte la gente del popolo che faceva ressa vicino all'entrata e servilmente si traeva da parte dinanzi a due fitte spalline, a un grasso signore o a una agghindatissima, ma oltremodo pia signora, che non mancavano mai di farsi avanti verso i primi posti e per il primo posto erano pronti in ogni momento a litigare. Mi pareva allora che là, presso l'entrata, si pregasse anche in modo diverso che da noi, si pregasse umilmente, con fervore, con profonde genuflessioni e con una certa piena consapevolezza del proprio umile stato.
Ora toccò anche a me stare in piedi in quegli stessi posti, e anche in peggiori condizioni: noi eravamo incatenati e coperti d'infamia; tutti si scostavano da noi, tutti anzi avevano l'aria di temerci, ogni volta ci facevano la carità, e ricordo che ciò mi era perfino, in certo qual modo, gradito e una certa qual raffinata, speciale sensazione coloriva quel mio strano piacere.
"E sia pure, se è così!", pensavo. I detenuti pregavano con molto zelo e ciascuno di loro portava in chiesa ogni volta la sua povera copeca per una candeletta o la deponeva nella cassetta della questua: "Sono anch'io un uomo", forse egli pensava o sentiva porgendola, "davanti a Dio tutti sono uguali". Noi facevamo la comunione dopo la prima messa. Quando il sacerdote, col calice nelle mani, recitava le parole: "... ma accoglimi come il ladrone", quasi tutti si prosternavano facendo risonare i ferri, e prendendo, mi pare, queste parole letteralmente a proprio conto.

Memorie dalla casa dei morti
Fedor M. Dostoevskij
Traduzione - Augusta Osimo Muggia


Nota: Il 23 aprile del 1849 Fedor M. Dostoewskij, con l'accusa di far parte di una società segreta che persegue finalità sovversive, viene arrestato e condannato a morte; il 22 dicembre giorno dell'esecuzione arriva la notizia della grazia concessa dallo zar Nicola I che commuta la pena capitale in condanna ai lavori forzati; il 24 dicembre inizia il viaggio che lo deporta in Siberia, l'11 gennaio 1850 giunge a Tobol'sk e il 17 gennaio viene rinchiuso nella fortezza di Omsk dove lavora l'alabastro e trasporta mattoni per 4 anni e con gli altri detenuti si muove in un recinto formato da 1500 pali di quercia; nel febbraio del 1854 ritrova la semilibertà per buona condotta e conclude la sua pena entrando a far parte per 2 anni del 7º battaglione siberiano dell'esercito come soldato semplice di stanza a Semipalatinsk.
L'esperienza dolorosa della reclusione, che peggiora le sue condizioni fisiche già compromesse dall'epilessia, viene raccontata in forma romanzata in Memorie dalla casa dei morti pubblicato tra il 1861 e il 1862.

2 commenti:

  1. Questo raccontarsi del grande scrittore, suscita pensieri sulla vita e la morte, del rinascere come possibilità di fiorire a nuovo... parla della distanza fra noi e tutto quel germogliare che provoca quasi un rancore per non poter accedere a quel che alla natura riesce così semplice.
    In realtà la primavera fa un lavoro massacrante fora duri tronchi, affronta terreni impervi e ordina a ogni apice fioriture e colori. Il tutto, all'apparenza, con leggerezza.
    Ci sono prigioni dietro sbarre d'acciaio e altre con sbarre di malattia. Ricordo un vecchio sacerdote e il suo "mi porti a vedere la primavera?" che sapeva di saluto a una stagione che forse non avrebbe rivista. Io lasciavo tutto e insieme partivamo per la collina, parcheggiavo in un prato e lì, aperte le portiere su un mare d'erba, respiravamo la primavera e parlavamo di un passato severo ora accattivante.
    Grazie.
    Ciao.

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    1. Ho scordato di menzionare Pier Paolo Pasolini e il suo "Il glicine" che m'è tornato in mente mentre ti leggevo. "Tu che brutale ritorni, non ringiovanito, ma addirittura rinato, furia della natura, dolcissima, mi stronchi uomo già stroncato da una serie di miserabili giorni".
      I grandi lo sono per un motivo che spesso sfugge ma sanno dare voce a quel che agita o commuove e che ha bisogno di essere nominato.
      Ciao.

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