mercoledì 31 ottobre 2012

Il Calendario di Coligny e Samhain, Ognissanti e Commemorazione dei Defunti

Nel novembre 1897 a Coligny, un comune francese del dipartimento di Ain, il signor Roux ritrovò in un pozzo una statua del dio Marte e 73 frammenti di una tavola bronzea risalente al II secolo d.C. su cui era stato inciso, in lingua gallica e caratteri latini, un antico calendario celtico lunisolare composto da 62 mesi complessivi ovvero: 


1 - ben cinque anni sinodici - lunari formati da 355 giorni ciascuno, distribuiti in 12 mesi di 30 giorni definiti MAT - fausti e 29 giorni definiti ANMAT - infausti, suddivisi a loro volta in due quindicine separate dalla parola ATENOVOX- di nuovo all'oscurità.

Il calendario di Coligny - Dettaglio

Ogni mese iniziava la notte della fase del primo quarto di luna, quindi la prima quindicina che comprendeva la fase del primo quarto di luna e il plenilunio veniva definita come il tempo della luce e l'ultima quindicina che comprendeva la fase dell'ultimo quarto di luna e il novilunio veniva definita il tempo dell'oscurità. 

Perciò non calcolano il tempo 
contando i giorni, ma le notti: 
le date natalizie, i principi dei 
mesi e degli anni sono contati 
facendo incominciare la giornata 
con la notte. 

De Bello Gallico VI - 18 
Caio Giulio Cesare

Il calendario di Coligny - Dettaglio

Nomi dei mesi del calendario celtico

Samonios - è composto da 30 giorni quindi un mese Mat - fausto
Dumannios - è composto da 29 giorni quindi è un mese Anmat - infausto 
Rivros - è composto da 30 giorni quindi è un mese Mat - fausto 
Anagantios - è composto da 29 giorni quindi è un mese Anmat - infausto 
Ogronios - è composto da 30 giorni quindi è un mese Mat - fausto 
Cutios - è composto da 30 giorni quindi è un mese Anmat - infausto 
Giamonios - è composto da 29 giorni quindi è un mese Mat - fausto 
Simivisonios - è composto da 30 giorni quindi è un mese Anmat - infausto 
Equos - che pur essendo composto da 30 giorni è un mese Anmat - infausto
Elenbiuos - è composto da 29 giorni quindi è un mese Anmat - infausto 
Edrinios  - è composto da 30 giorni quindi è un mese Mat - fausto
Cantlos - è composto da 29 giorni quindi è un mese Anmat - infausto

più

2 - due mesi intercalari di 30 giorni ciascuno,Quimonios e Sonnocingos inseriti ogni due anni sinodici e mezzo che servivano: 
a - per compensare il computo dell'anno lunare più breve di 11 giorni di quello solare che garantiva la corrispondenza annuale tra i mesi e le stagioni che altrimenti si sarebbe persa e ritrovata dopo un ciclo di 30 anni 
b - per vari calcoli astronomici relativi alla posizione della luna e del sole nel cielo che prevedevano a esempio il sorgere e il tramontare dei due astri, le fasi lunari e le eclissi 

E innanzitutto il sesto giorno della Luna, che segna per questi gli  inizi dei mesi, degli anni e dei secoli 
che durano 30 anni, giorno scelto perché la Luna ha già tutte le sue forze senza  essere a metà del suo corso. 

Naturalis Historia 
Plinio il Vecchio - XVI 

Il calendario di Coligny - Dettaglio

Sulla tavola di Coligny (oggi conservata nel Museo della Civiltà Gallo- Romana di Lione), che più che un calendario è un vero e proprio almanacco che ci fa capire quanto i celti fossero legati alla natura e alla ciclicità delle stagioni, due giorni dopo l'ultimo quarto di luna, nel secondo giorno della seconda quindicina di Samonios che non sappiamo con certezza se corrisponde al nostro maggio, al nostro novembre o ancora a un altro mese, si legge la scritta: Trinvx(tion) Samoni Sindiv(os) - Le tre notti di Samonios cominciano adesso; popolarmente la si associa alla festività di Samhain, l'unica citata delle quattro rilevanti, secondo le fonti medievali, per i celti che facevano parte di un ciclo cosmico chiamato Hnot - intreccio in cui uomo e natura erano uniti da un profondo vincolo di sopravvivenza. Una sorta di capodanno agricolo che James George Frazer nel 19° secolo collegò arbitrariamente alla Vigilia di Ognissanti/Halloween.  
L'iscrizione secondo l'etnologo Michel Lejeune potrebbe invece riferirsi alla festa delle 10 notti dedicata a Apollo Grannus registrata a Limoges in un'iscrizione latina del I secolo d.C.:
postvmvs dv[m]norigis f(ilivs) verg(obretvs) aqvam martiam decamnoctiacis granni d[e] s[va] p[ecvnia] d
I celti non hanno lasciato nulla di scritto, le loro tradizioni venivano trasmesse per via orale di generazione in generazione pertanto tutte le notizie che a oggi ci sono pervenute dipendono da testimonianze indirette. 

" I Romani posero fine a queste usanze, nonché ai sacrifici e alle pratiche divinatorie contrastanti con le nostre istituzioni. Così un uomo era stato consacrato agli dei, lo si colpiva alla spalla con una spada da combattimento e si divinava il futuro a seconda delle convulsioni dell'agonizzante. Non si praticavano mai sacrifici senza l'assistenza dei druidi: così talora uccidevano le vittime a colpi di frecce, o le crocifiggevano nei loro templi o, ancora, fabbricavano un colosso di fieno e di legno, vi introducevano animali domestici e selvatici di ogni tipo assieme a degli uomini e vi appiccavano fuoco." 

Geografia IV - 5
Strabone

Testimonianze, come queste, sulla pratica dei sacrifici umani da parte dei sacerdoti celti durante le cerimonie, sono servite ai detrattori di Samhain, che oggi cerca di sopravvive nell'aspetto folkloristico della festa cattolica di Halloween - Vigilia di Tutti i Santi, per renderla il palcoscenico preferito di alcune sette che sembra svolgano alcune pratiche veramente inumane. Samhain però è stata sganciata dal suo contesto storico in cui il concetto di vita e di morte non era certamente uguale a quello odierno, è stata privata della sua originale connotazione ed è stata demonizzata amplificando l'aspetto macabro che la snatura sotto i colpi degli abusi che in essa vengono perpetrati da una parte e non arginati dall'altra. 

Come dicendo messa il dì de’ morti, frate Giovanni della Vernia vide molte anime liberate del purgatorio.
Dicendo una volta il detto frate Giovanni la messa il dì dopo Ognissanti per tutte l’anime de’ morti, secondo che la Chiesa ha ordinato, offerse con tanto affetto di carità e con tanta pietà di compassione quello altissimo Sacramento (che per la sua efficacia l’anime de’ morti desiderano sopra tutti gli altri beni che sopra tutto a loro si possono fare) ch’egli parea tutto che si struggesse per dolcezza di pietà e carità fraterna. Per la qual cosa in quella messa levando divotamente il corpo di Cristo e offerendolo a Dio Padre e pregandolo che per amore del suo benedetto figliuolo Gesù Cristo, il quale per ricomperare le anime era penduto in croce, gli piacesse liberare delle pene del purgatorio l’anime de’ morti da lui create e ricomperate; immantanente egli vide quasi infinite anime uscire di purgatorio, a modo che faville di fuoco innumerabili ch’uscissono d’una fornace accesa, e videle salire in cielo per li meriti della passione di Cristo, il quale ognindì è offerto per li vivi e per li morti in quella sacratissima ostia, degna d’essere adorata in secula seculorum. 
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen. 

I fioretti di SanFrancesco 
Anonimo 

venerdì 26 ottobre 2012

Lo specchio di Golconda - I miracoli esistono

Golconda non scriveva su Anima Mundi da tanto tempo e in una fase profondamente acuta di odio per il suo alter ego o per se sé stesso in cui la sofferenza e la rabbia erano dilanianti, è ritornato per annunciare la sua morte, ma un istante dopo aver ucciso il suo nome metaforico è risorto dalle sue ceneri proprio come l'Araba Fenice; Golconda tra grandezza e rovina, tra luce e ombra, tra amore e odio, sospeso tra cielo e terra ha sentito la sintonia del mondo esterno, ha sentito il sostegno non viziato dall'affetto o dalla conoscenza e sta rigenerando con fatica la voglia di vivere e raccontare.

Sperando di non essere contagiato dall'infezione politichese contratta da portatori sani quali i nostri politici, bensì mosso unicamente da sparuti rigurgiti della mia fede cattolica, torno a scrivere consapevole del disprezzo che posso suscitare per aver dichiarato la morte di Golconda e subito dopo la sua resurrezione, comportamento abituale del politico italiano, però forte è il desiderio di testimoniare un miracolo. 
Solo tre giorni orsono in preda al desiderio di sconfiggere il peggior nemico di me stesso, la testardaggine, mi sono imposto di piazzarmi davanti al televisore per tutto il giorno, nell'ultimo disperato tentativo di cogliere una qualsiasi forma, anche appena accennata, di razionalità nei discorsi che tutti i praticanti della politica ed i loro derivati potessero esternare. Vi confermo che i miracoli esistono; ma non crediate nemmeno per un secondo che possa essere accaduto quanto anelavo, in seguito chiarirò l'aspetto mistico. 
Non posso riportare tutte le stronzate sarebbe un sacrificio lungo e masochistico, ma tre cose sono rimaste impresse più di altre per la loro perfetta, compiuta, persino artistica idiozia. 
La prima di buon mattino, così da ambientarsi subito all'odore del pattume, è uscita dalla bocca di una giornalista, la signora Annunziata da me oltretutto ritenuta di livello più alto, suonava pressapoco così: è tempo di dire agli italiani che anno vissuto per anni al di sopra delle loro possibilità!". 
Ma che vuol dire? Che quando compravo la macchina, magari spendendo più di quanto potevo, correva lo Stato, magari a mia insaputa, a pagare le rate? O forse senza accorgermene i soldi di molteplici quanto inutili telefonini di ultima generazione distrutti dai miei figli provenivano dalla Cassa Depositi e Prestiti? 
Finitela di raccontarci cazzate! Non sono gli italiani ad aver vissuto oltre i propri limiti, ma lo Stato mediante i suoi voracissimi esponenti politici senza distinzione di colore e tanto meno di statura morale, che hanno gettato il denaro del popolo nei loro personali pozzi dei desideri senza soluzione di continuità. 
Questi si, vivevano oltre le loro possibilità, ma cosa ben peggiore oltre le loro capacità. 
Così di buon mattino ero già in preda alla nausea ma determinato nel mio intento continuavo ad ascoltare.
Solo verso l'ora di pranzo tra un mare di inutili rumori si stagliava la voce di Massimo D'Alema che con fare istituzionale affermava essere sua ferma intenzione, il sostegno al candidato Bersani nelle primarie del centro - sinistra, cosa più o meno condivisibile, ma aggiungendo subito dopo che in caso di sconfitta di Pier Luigi Bersani a vantaggio di Matteo Renzi sarebbe stata la guerra. 
Alla faccia della libertà, se vinco io bene, se perdo butto all'aria il tavolo. 
Complimenti! Mai esempio di democrazia fu più fulgido. Immaginate voi se per un attimo Hillary Clinton durante le primarie dei democratici avesse dichiarato in tutta tranquillità in caso di sua sconfitta a vantaggio di Barack Obama che lei si sarebbe prodigata nel tentativo di combattere in ogni modo il prossimo presidente degli Stati Uniti ? Non oso pensare alle conseguenze . 
Eppure il nostro ben amato ex Premier, ex ministro, ex segretario, ex presidente ed ex di qualcosa che ora dimentico dichiara al popolo che o è così, o ...

Antonio De Curtis

"Ma mi faccia il piacere!" avrebbe detto Totò, non sarà forse che a Massimo D'Alema oggi il color rosso non si addica più? Magari può tentare con qualcosa di più scuro viste le intenzioni, noo? 
Verso sera le speranze si erano ridotte a lumicino e avevo fatto appello alla mia fede affinché almeno una minuscola, insignificante parola decente, saltasse fuori da quella starnazzante assemblea di oche giulive ( beninteso con oche giulive comprendo ambedue i sessi ), ma nulla, anzi proprio in chiusura una voce si faceva largo tra le altre come stella cometa, fuoriuscendo dalla caverna orale di una famosa economista di cui per mia fortuna non ricordo nemmeno il nome, la quale a precisa domanda per quale motivo le banche non dessero denaro alle imprese dopo averne ricevuto in quantità, usando parole forse diverse ma dall'identico significato di quelle che io sto per usare, rispondeva più o meno così:" è evidente che in un periodo di crisi così profonda le banche non diano denaro a chi in teoria potrebbe correre il rischio di non farcela". 
Già sul momento può apparire sensato, stavo per illudermi quando una vocina maligna mi ha sussurrato nell'orecchio :" fammi capire, ma non erano proprio le banche a correre il rischi di insolvenza? Senza considerare che forse erano anche la causa di tutto? E allora perché hanno ricevuto denaro in quantità industriale, denaro dato dagli Stati e quindi dei popoli? Perché loro si e le imprese no? Vuoi vedere che sono davvero enti benefici e per questo non pagano nemmeno l'I.M.U.? 
A tarda sera mi sono arreso con l'unico rammarico che anche il mio Dio non aveva voluto regalarmi un piccolo segno, ma da misero miscredente sbagliavo e il perché sto per dirvelo. Così mi sono alzato per spegnere mentre quelli rimasti si scambiavano le solite frasi trite e ritrite. 
L'ultima che ho udito è stata:" credi di vivere come Alice nel Paese delle Meraviglie?", frase mille volte ripetuta da questi poco fantasiosi idioti, sbagliando anche favola, impossibile neppur sognandolo quel paese. 
Piuttosto indicherei Cappuccetto Rosso almeno di lupi, ne volessi!



Ho pensato anche a proporre "I Tre Porcellini", ma ho scartato subito l'ipotesi perché per quanto giravo e rigiravo il numero tre non ci stava da nessuna parte, mi avanzavano sempre alcune migliaia di porci. 

Scusate se vi ho tediato ma avevo un bisogno impellente di vomitare tutto fuori, siate benevoli con me perché rispetto tutti voi gente del popolo. 

P.S. Ah! Dimenticavo il miracolo, sono andato a dormire triste ritenendomi non meritevole neppure di un segno divino, il mattino seguente alzandomi ho premuto il tasto di accensione del televisore che è rimasto inattivo, in quello stesso istante ho appreso che la società per l'energia mi aveva ridotto la potenza, ero inadempiente e potevo usufruire solo di una minima parte della medesima, lampadine e poco altro, niente frigo, niente asciuga - capelli e soprattutto niente T.V. 
Un attimo di stupore poi il miracolo mi è apparso chiaro come per San Paolo sulla via di Damasco, non potevo più sentire tutte quelle cazzate anche l'avessi voluto. 
Beh! Non ci crederete di buon mattino mi venne di pregare. 
Ora sto meglio, solo un po' stanco, ma poco, perché non dormo da tre giorni, monto la guardia ininterrottamente al mio contatore esterno, hai visto mai che a qualcuno passasse per la testa di ridarmi potenza!

Golconda



Il Caporale Tiziano Chierotti originario di Sanremo, appartenente al Secondo Reggimento di Cuneo, inquadrato nella brigata Taurinense, ha perso la vita a 24 anni, alle ore 19.45 ora afghana del 25 ottobre 2012, dopo essere stato ferito all'addome in un attacco a fuoco, mentre era di pattuglia a Bakwa nella provincia di Farah a sud di Herat - Afghanistan




lunedì 22 ottobre 2012

La giara

Va diffondendosi nell'aria frizzante di ottobre, 
la fragranza acre, pungente e aromatica 
che annuncia il vivace lavoro delle macine, 
nei frantoi festanti, allegramente affollati 
per la spremitura delle olive. 

Sciarada Sciaranti

Antica giara

" Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire. 
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa. 
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato. 
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare. 
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: - Sellate la mula! - Ora, invece: - Consultate il calepino! - 
E Don Lollò rispondeva: 
- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane! 
Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena. 
Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo. 
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti. 
- Guardate! guardate! 
- Chi sarà stato? 
- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato! 
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne. 
Ma il secondo: 
- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti! 
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò: 
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo! 
Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato. 
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo! 
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando: 
- Sangue della Madonna, me la pagherete! 
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto: 
- La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora! 
Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana! 
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima. 
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle. 
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato. 
Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto. 
- Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza. 
Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità. 
- All'opera si vede. 
- Ma verrà bene? 
Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse: 
- Verrà bene. 
- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti. 
- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle. 
Don Lollò lo acchiappò per un braccio. 
- Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io. 
Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice. 
- Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana... 
- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare? 
- Se col mastice solo... 
- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi. 
E se ne andò a badare ai suoi uomini. 
Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano. 
- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata. 
Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti: 
- Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone! 
- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti. 
E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo. 
- Ora ajutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima. 
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre. 
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito. 
Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto! 
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci. 
- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro? 
S'accostò alla giara e gridò al vecchio: 
- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula! 
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana. 
- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!» 
E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola. 
- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano? 
- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire. 
- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire. 
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso: 
- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato. 
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava. 
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì. 
- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia! 
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. " Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara? " 
- Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno? 
- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona! 
- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io? 
L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine. 
- Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara! 
- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo! 
- E perché? 
- Ma perché era rotta, oh bella! 
- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato! 
L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso. 
- Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso. 
- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa. 
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi. 
Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara. 
- Ah! Ci stai bene? 
- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia. 
- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso? 
- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima. 
I villani risero. 
- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu. 
Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse: 
- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no. 
- Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré? 
- Meno sì, più no. 
- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré. 
- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso. 
- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré. 
- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi. 
E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara. 
Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera. 
- Ah, sì - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara. 
Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido: 
- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria! 
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo. 
- Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima. 
- Pezzo da galera! - ruggì allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince! 
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato. 
A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola. 
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo. 
E la vinse Zi' Dima. " 

La giara 
Novelle per un anno 
Luigi Pirandello 


Grazie a Tiziano mi sono resa conto che il video integrale che raccontava la novella di Pirandello è stato cancellato, pertanto vi propongo questo in cui mancano, grosso modo, i primi 10 minuti 
Buona visione

giovedì 18 ottobre 2012

Il Congresso degli Arguti - Madama Lucrezia

Ed ecco lei, l'unica donna del Congresso degli Arguti:

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Madama Lucrezia o Lugrezzia, un busto colossale di marmo alto 3 metri risalente al II- III secolo d. C.

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

nell'acconciatura ricorda Faustina Minore moglie dell'imperatore Marco Aurelio

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

e lo scialle plissettato che indossa con il tipico "nodo isiaco" fa pensare che il busto possa essere o di una sacerdotessa della dea Isis il cui culto veniva professato nell'Iseo di Campo Marzio o, ed è anche più credibile, la statua della stessa dea Isis - Sothis sul cane Sirio disposta sul frontone del tempio a lei dedicato.

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Nel 1500 circa, il cardinale Lorenzo Cybo fece posizionare questo busto a piazza San Marco davanti alla basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio e in seguito fu addossato alla parete della basilica accanto a Palazzetto Venezia nei pressi del quale, dopo la morte del suo amante Alfonso V d'Aragona re di Napoli avvenuta nel 1458, abitò Lucrezia D'Alagno* da cui probabilmente deriva il nome della statua, ipotesi avvalorata dal termine Madama usato a Napoli e non a Roma. 

Lucrezia D'Alagno*= Figlia di Nicola D'Alagno senatore a Roma nel 1428, divenne a 18 anni la favorita del re di Napoli Alfonso V d'Aragona detto il Magnanimo e nel tentativo di far ottenere al suo amante il divorzio, si recò a Roma l'11 ottobre 1457 da papa Callisto III, fu accolta con tutti gli onori dal cardinale Pietro Barbo ( futuro papa Paolo II) che la omaggiò con vari doni d'arte accompagnati da uno scritto che diceva: "donatum dominae Lucretiae", ma non ottenne ciò che voleva, ritornò così a Napoli, ma quando l'anno successivo Alfonso morì e salì al trono suo figlio Ferrante I, Lucrezia lasciò per sempre la città partenopea trasferendosi prima in Dalmazia, a Ravenna e poi a Roma dove morì il 19 febbraio 1479, fu seppellita nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva anche se oggi la tomba è scomparsa. 

Aggiungo che nel XVI secolo un'altra Lucrezia abitò nei pressi di Palazzetto Venezia, la moglie del maestro Giacomo dei Piccini da Bologna, ma l'ipotesi che la statua prenda il nome da lei è meno probabile.

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Nel 1591 Gregorio XIV quasi moribondo, con la speranza di riprendersi, si fece trasferire a Palazzetto Venezia, un luogo considerato tranquillo perché protetto da un alto steccato che conteneva i fastidiosi rumori provenienti dall'esterno, ma ciò non portò alcun sollievo al papa che lì morì il 16 ottobre di quello stesso anno e Madama Lucrezia spettatrice dell'evento pronunciò una delle pasquinate passate alla storia: " la morte entrò attraverso i cancelli " e nel 1799 durante la Repubblica Romana quando il suo busto cadde rompendosi in otto pezzi disse in riferimento al governo: " Non ne posso veder più ".

Madama Lucrezia - Il Congresso degli Arguti

Nel 1806 Annibale Malatesta ricomponendo tutti i frammenti restaurò Madama Lucrezia, la prorompente dea parlante che tra il settecento e l'ottocento, ogni primo maggio diventava protagonista nella festa del " ballo dei guitti " che si svolgeva a piazza San Marco, " il ballo de li poveretti " in cui uomini e donne si sceglievano simbolicamente come sposi formando delle coppie anche molto improbabili e consacravano la loro unione davanti alla statua addobbata con collane di agli, carote, cipolle, peperoncini e nastri, lanciandosi poi in festeggiamenti e danze sfrenate.

Er ballo de li guitti*

M'arrincontava la bbon'anima de mi' nonna che er ballo de li guitti era 'na festarella che sse faceva a Roma, in de li su' tempi, er primo de maggio.
'Sta festa se faceva su la piazza de San marco, davanti a Madama Lugrezzia, che in quer giorno compariva tutta impimpinata cor un gran toppè de cipolle, d'aji, de nastri de tutti li colori e dde carote.
Era un divertimento, dice, accusì bello, che cce cureva a vvedello tutta Roma sana.
Prima de tutto li guittiche ppijaveno parte al gioco, facevano come se fa a quer gioco de pegni che sse chiama:"A fa' li spòsi" .
Ogn'omo se scejeva, pe' quer giorno, una spòsa qualunque.
Poi còppia pe' ccòppia, prima de principià er ballo se presentava davanti a madama Lugrezzia, e ffaceva infinta de fa' lo sposalizzio, come si llei fussi stata er sinnico o er curato.
Poi se dava comincio ar ballo. Ce n'èreno de coppie sciarmante davero, speciarmente certe paciòccòne de li Monti, che ddice che vve facéveno annà' in brodode guazzétto; ma cc'erenopuro certe gamme a icchese, e ccerti gobbi e ggobbe, che a vvedé', coppie de vecchi bbacucchi e dde sciancati, che, infocati in der ballo, facévenotanti stravèri e ttante bboccaccie, da fa' p'er gran morì' dda ride' , schioppà' er grecile infinenta a Madama Lugrezzia.


De li guitti* = degli spiantati


Luigi detto Giggi Zanazzo

Post dedicati al Congresso degli Arguti

1 Pasquino
2 Marforio
3 Il Facchino
5 L'Abate Luigi
6 Il Babuino



P.S. Il post di Golconda è ancora in divenire, gradualmente risponderà a tutti; lui scrive rigorosamente a penna su carta riciclata, non ha subìto per ora il fascino di internet e non ha neanche un indirizzo di posta elettronica, mi ci vuole un po' di tempo per trascrivere i suoi pensieri per voi che avete provocato una scintilla che non è stata accesa neanche dai miei occhioni spalancati che manifestavano in maniera silenziosa il mio dispiacere per la sua decisione di non scrivere più su questo blog.
Un abbraccio da me e da lui.

venerdì 12 ottobre 2012

Lo specchio di Golconda - Finta fantacrazia

Golconda

Golconda l'antica città dell'india che dalla grandezza e dalla potenza scivola nella rovina

Golconda - René Magritte 1953

Golconda che nel 1953 diventa un quadro surrealista del grande René Magritte in cui uomini sospesi in aria si elevano al cielo o cadono come pioggia 

Golconda che dal 25 giugno 2010 è un uomo che guarda allo specchio il suo alter ego e gioca e parla con lui in uno scambio reciproco di odio e amore

Il mio paese, la mia gente, i miei amori ed i miei ideali, sono tutto ciò per cui ho vissuto. Ho dato battaglia, regalato sorrisi, generato lacrime, imponendo sogni lungo strade asfaltate di delusione. In buona fede, assoluta, cristallina buona fede ho reso cieco chiunque mi fosse accanto. Dio benedica coloro che non annebbiati dal loro amore per me mi hanno deriso, umiliato, abbandonandomi solo con le mie vergogne e benedica tutti coloro che stesso trattamento hanno riservato per i loro padri, mariti o semplici amici che giorno dopo giorno li sospingevano verso un baratro colmo di paura e tristezza invisibile ai loro occhi perché coperti da veli di falsa saggezza.
Adesso e che io sia maledetto solo oggi comprendo le mie colpe e i danni che la superbia di essere un vedente hanno portato. Questo è il prezzo che la mia dignità deve pagare insieme a molti altri figli di questa generazione imbelle, incancrenitasi su se stessa, lasciatasi divorare lentamente incapace di reagire, vigliacca ed ipocrita, divulgatrice di vergogna. Non lamentiamoci se vediamo i nostri figli soffrire ed i nostri padri macerarsi impotenti per i loro nipoti, per qualcosa che noi dovevamo fare e che non abbiamo fatto.
Io so con certezza che questo sarà il prezzo che pagherò per ogni giorno che condurrà alla mia fine e chiedo umilmente perdono per non aver saputo vedere, avvisare, proteggere la mia gente, dagli sciacalli che in ogni epoca, loro si fedeli nei secoli, ubbidiscono all'istinto predatorio che è dalla loro nascita e li accompagna senza incertezza nella crescita. A questi abbiamo concesso senza resistenza di diventar padroni delle nostre vite e quelle future senza alzare le armi che da sempre difendono i popoli, le penne e i forconi. Subìto per anni la tracotanza, la strafottenza, l'assoluta certezza di poter dire e fare a quello stesso popolo che lì colpevolmente li aveva messi e ancor più colpevolmente lasciati a far ciò che più gli piaceva, convinti e purtroppo a ragione, di essere immuni ed impunibili. 
Eravamo troppo intenti a cercare mille cavilli e mille giustificazioni che placassero i flebili cenni di sussulto della dignità così da essere in pari con la nostra coscienza e ora eccoci qua, ora è tardi, ora il mondo ha portato il conto e facciamo come sempre abbiamo fatto, resteremo ad aspettare che altri lo paghino, giovani generazioni condannate a farsi carico prima del tempo di fardelli lasciati da giganti piagnucolosi. Non so se mi sarà di conforto l'aver constatato che molti insieme a me sono caduti arrendendosi prematuramente e che fra loro ve ne erano di più potenti, di più preparati, di più dotati di quanto a me stesso riconosco. Per ogni tempo buio che il nostro paese ha attraversato, per ogni momento di oppressione che il popolo ha subito, sempre ho visto nascere guerrieri che drizzavano la schiena alzando barriere. In questi anni dove erano i simboli della libertà, in cosa si perdevano le associazioni sindacali se non dietro a meschini giochi di privilegio, cosa facevano le penne importanti salvo compiacere come giullari i loro re, ancor più persino gli artisti, anima e voce del popolo, rinunciavano alla resistenza fatta di cento commedie recitate nei teatri, nei versi di poesia di libertà, nelle parole composte non solo per gli stadi, ma per ogni strada per ogni piccolo, invisibile, debole essere umano. In nome di una civiltà presunta abbiamo pensato di annientare il terrorismo in casa di altri permettendo con assoluta indifferenza che barbari assassini portassero devastazione nella nostra terra, dentro le nostre case e fra le nostra gente e pur di compiacerli ci siamo affamati ad osannarli colmandoli della nostra servile attenzione. Questo è il peccato più grande da noi commesso e ripetuto, non aver saputo che un popolo alla fine ha bisogno per andare avanti di cose semplici, visibili, credibili, e quando le parole gli diventano difficili, incomprensibili, in quel momento chi può deve abbandonare l'inerzia, spezzare gli indugi e a voce alta, urlare in modo duro, sgarbato, persino villano ai traditori:"Ma che cazzo stai dicendo! Ma come cazzo puoi pensare che io possa credere che tu non sapevi, che tu non vedevi, che tu non centravi! Anche se il tuo lavoro era solo quello." 
Cosa ci rimane oltre le macerie, solo una speranza, piccola ma viva, dopo di noi forse mossa dal disgusto che il vomito gli suscita nel vederci, la generazione seguente trovi la forza necessaria per spazzare via con la potenza di un uragano dai ruoli e dai compiti affidati dal popolo e per il popolo tutti senza indugio ne distinzione, facendo le uniche due cose possibili: 
la prima torcersi dai dolori che i muscoli dello stomaco daranno loro per le incontenibili risate ascoltando i così detti servitori, 
la seconda provare dolori ancor più forti che stavolta gli deriveranno dai muscoli delle braccia per l'uso prolungato del bastone. Chi come me sa di essere stato incapace non può e non deve dare consigli, ma se solo una minuscola parte della mia esperienza potrà essere utile ora che la mia vita sta per lasciare quella che doveva essere l'età della maturità per entrare in quella dell'anzianità, vi dico di non correre dietro alla vendetta ma non esitate neanche un attimo nel richiedere giustizia, sia concesso al derubato di chiedere al ladro il maltolto , sia il popolo, quello vero, quello che soffre, fatica, combatte ogni giorno a pulire la sua stessa casa, tagliando netto il passato, obbligando a restituire quanto rubato, impedendo per sempre a chi ha amministrato la vita pubblica in qualità di delegato o dirigente, ogni possibilità di prosecuzione presente e futura, riservando, anche se incolpevole, la medesima sorte per la loro discendenza diretta o indiretta per almeno un quarto di secolo, altrimenti la cancrena tornerà ad espandersi. 
Cadranno anche alcuni giusti? Sì, probabile, ma questi davvero potranno essere considerati sacrifici indispensabili; pagheranno figli innocenti per colpa di padri infami? Certamente, mi addolora, ma non stanno forse pagando i nostri figli senza alcuna colpa? 
Golconda muore qui, finisce la sua avventura inutile, si spoglia del metaforico nome e si lascia morire, resta l'uomo, inutile e vinto dalla sua stessa debolezza! 
A mai più e che Dio vi renda capaci di tenere lontano la finta fantacrazia, quella malattia strisciante che devasta le speranze del popolo e cioè la finta per chi la subisce e la fantastica per chi la elargisce democrazia che semplicemente esiste solo per uccidervi. 

© Golconda

lunedì 8 ottobre 2012

Premio Cutie Pie

Buongiorno ragazze e ragazzi, ben ritrovati e grazie per aver continuato a far vivere Anima Mundi con il battito del vostro cuore!

"L'anima non vede, nella vita,
se non ciò che è già nell'anima stessa.
Non crede se non nella propria vicenda,
e quando sperimenta qualcosa
l'esito diventa parte di essa.

Self - Portrait
Kahlil Gibran

Ringrazio Gabriella del blog Cuore Magico ed Enrico del blog Amici in allegria per avermi donato il Premio Cutie Pie - Box del Mercato


Devo: 

Nominare chi ha creato il premio: La creatività di Anna
Citare da chi lo abbiamo ricevuto: Gabriella Franchi e Enrico Zio
Premiare 10 blogger : Passo il premio a tutti  i Box del Mercato che con i loro prodotti, i loro colori e i loro profumi offrono alla gente, ciò che cerca
Descrivere le tre cose più carine del vostro blog o di voi blogger: Come cantava Pino Daniele "Ogni scarrafone è bello a mamma soja - Ogni scarafaggio è bello per la sua mamma", io non riesco a scegliere. Sarebbe interessante sapere cosa voi, considerate carino di questo blog e di me!



P.S. Chiunque voglia il logo del premio può prelevarlo dai blog di Gabriella ed Enrico
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